CONSIGLIO DI STATO, sezione VI- sentenza 26 gennaio 1999,  n. 59 – Pres. DE LISE, Est. COSTANTINO – Istituto nazionale per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro -INAIL (Avv.ti PIGNATARO e PONE) c. S.I.A.C. – Società Italiana Additivi per carburanti s.r.l. (Avv.ti Racchi, Riva, Ciampolini e Caravita di Toritto), Baldassarre e Ciampa (n.c.) – (annulla T.A.R. Abruzzo – Sezione staccata di Pescara 5 dicembre 1997 n. 681).

Fonti – Legge e regolamento – Contrasto del regolamento rispetto alla legge – Potere di disapplicazione – Sussiste.

Atto amministrativo – Diritto di accesso – Actio ad exhibendum ex art. 25 L. n. 241/1990 – Norma regolamentare in contrasto con quanto disposto dalla legge – Potere di disapplicazione – Può essere esercitato – Impugnazione specifica del regolamento – Non occorre.

Atto amministrativo – Diritto di accesso – Rapporto con il diritto alla riservatezza – A seguito della L. n. 675 del 1996 – In ordine a dati personali sensibili – Esercizio del diritto di accesso – Condizioni – Espressa previsione normativa – Necessità.

In presenza di un conflitto fra fonte primaria ed atto di normazione secondaria che disciplini successivamente la medesima fattispecie in maniera contrastante con la prima, la norma di rango secondario, anche se non impugnata, deve considerarsi recessiva e quindi inapplicabile come regola di giudizio(1).

Tale principio è anche applicabile al particolare processo previsto dall'art. 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241; deve pertanto ritenersi che, allorquando il diniego di accesso trova la sua giustificazione in una norma regolamentare che si assume in contrasto con il contenuto del diritto di accesso garantito dalla norma di rango superiore, il giudice amministrativo adito per l'annullamento del rifiuto può comunque procedere alla «disapplicazione» della norma secondaria in contrasto con la legge, senza che occorra una formale impugnazione del regolamento stesso.

Dopo l'entrata in vigore della legge n. 675 del 1996, nel caso di richiesta di accesso a documenti contenenti dati personali sensibili relativi a terzi posseduti da una pubblica amministrazione, il diritto alla difesa prevale su quello alla riservatezza solo se una posizione di legge espressamente consente al soggetto pubblico di comunicare a privati i dati oggetto della richiesta (2).

(1) Cfr., Cons. Stato, Sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154; id., 24 luglio 1993, n. 799; id., 7 aprile 1995, n. 531.

(2) Ha osservato in particolare il Consiglio di Stato, con la sentenza in rassegna, che «non costituisce ostacolo a tale conclusione la circostanza, messa a rilievo della sentenza appellata, che numerose disposizioni di legge consentono, ed in alcuni casi impongono, al datore di lavoro di conoscere, sia pure a mezzo di un medico designato, le condizioni di salute dei lavoratori.

La tesi accolta non disconosce al datore di lavoro la possibilità di trattare dati personali sensibili dei lavoratori allorchè la legge lo consenta, ma non comporta altresì che detti dati siano acquisiti, invece che attraverso le visite periodiche rientranti nelle misure necessarie da adottare a difesa della salute dei lavoratori, mediante richiesta ad una pubblica amministrazione, la quale li detiene per finalità diverse e non risulta autorizzata espressamente dalla legge a comunicarli a privati».

FATTO: La S.I.A.C. – Società Italiana Additivi per carburanti s.r.l. con ricorso al Tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo – Sezione staccata di Pescara, chiedeva di accedere alla documentazione clinica in possesso dell'INAIL, relativa agli ex dipendenti Fernando Ciampa e Giuseppe Baldassarre, la sospensione del procedimento in corso diretto a valutare l'indennizzabilità di malattie denunciate come professionali dagli stessi ed il riconoscimento del diritto di intervenire nel citato provvedimento, previa disapplicazione e/o annullamento dell'art. 4, ultimo comma del Regolamento INAIL, recante la disciplina delle modalità di esercizio e dei casi di esclusione del diritto di accesso.

La società premetteva che il ricorso si era reso necessario per l'atteggiamento negativo tenuto dall'Istituto, che veniva censurato per violazione dell'art. 25 legge 7 agosto 1990, n. 241, e precisava che il suo interesse era connesso sia all'aumento del tasso di premio applicato sia alle eventuali responsabilità penali derivanti dall'accertamento come professionali delle malattie denunciate sia, infine, dalla necessità di potere predisporre l'attività di prevenzione, alla quale è tenuto per legge.

Aggiungeva che nessun ostacolo di soddisfacimento della sua domanda poteva derivare dall'art. 4, ultimo comma del Regolamento INAIL, recante la disciplina delle modalità di esercizio e dei casi di esclusione del diritto di accesso, in quanto tale norma – peraltro già annullata con sentenza del TAR Lazio (Sez. III) 9 gennaio 1997, n. 201 – non considera i compiti e le responsabilità che incombono all'imprenditore al fine di tutelare l'integrità fisica del lavoratore secondo quanto dispongono gli artt. 32 e 41 della Costituzione, l'art. 2087 codice civile e gli artt. 1, 4 e 31 del D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626.

L'istituto si costituiva in giudizio, eccependo l'inammissibilità della domanda nella parte in cui tendeva ad ottenere una pronuncia dichiarativa e di condanna, la tardività dell'impugnazione del Regolamento, che peraltro non era stato impugnato negli artt. 6 e 9, l'inammissibilità del rito speciale di cui all'art. 25 legge 7 agosto 1990, n. 241 per l'impugnativa di tale regolamento. Nel merito l'Istituto contestava diffusamente le argomentazioni poste a base del gravame, sollevando in via subordinata eccezione di incostituzionalità dell'art. 24, comma 2 legge 7 agosto 1990, n. 241 nel caso in cui dovesse interpretarsi nel senso di consentire la visione degli atti malgrado le esigenze di riservatezza.

Anche il Baldassarre si costituiva in giudizio, eccependo l'inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, avendo la SIAC cessato la sua attività, e nel merito deduceva l'infondatezza della domanda.

Il TAR, disattesa l'eccezione di difetto di interesse sollevata dal Baldassarre sul rilievo che, a parte la mancanza di prova sul punto della cessazione dell'attività della società, quest'ultima aveva dichiarato di avere momentaneamente cessato l'attività produttiva solo nello stabilimento Busso, sulle altre questioni dedotte dall'istituto così statuiva:

a) l'impugnativa del regolamento è stata prospettata solo come eventuale e subordinata e comunque esso è stato annullato con efficacia erga omnes con sentenza del TAR Lazio (Sezione III) n. 201 del 9 gennaio 1997, per la cui richiamata norma regolamentare (art. 4) non ha più alcuna rilevanza nel giudizio. Né gli artt. 6 e 19 di pongono come ostativa in senso assoluto all'accoglimento della domanda di accesso, perché si tratta di disposizioni coerenti con la normativa di rango primario.

b) la normativa (D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124) che, secondo l'Istituto non consente la partecipazione del datore di lavoro o di un suo sanitario in sede di attività medico legali relative alla persona del lavoratore, è stata abrogata dalla legge 7 agosto 1990 n. 241.

c) la legge n. 675 del 1996 non influisce né sul piano della giurisdizione (art. 28, comma VIII) né per quanto attiene al merito della controversia.

L'art. 43 della legge mantiene ferma al normativa in tema di diritto di accesso, e del resto lo stesso provvedimento del Garante 19 novembre 1997 riconosce il trattamento a favore del datore di lavoro (anche a mezzo del medico competente) dei dati sensibili del lavoratore relativi al suo stato di salute ed, in particolare, alle malattie professionali, ove tale trattamento sia necessario per fare valere un diritto in sede giudiziaria.

Da ciò la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità.

Il Tribunale, quindi, riconosceva il diritto della società ad accedere agli atti richiesti anche a mezzo del medico abilitato alle visite periodiche e sospendeva il procedimento in corso in quanto la tutela che la legge accorda è unica, tanto se essa si manifesti nella fase partecipativa al procedimento tanto se attenga alla conoscenza di documenti amministrativi. Tale unicità di tutela risulterebbe ribadita dall'art. 2 D.P.R. 27 giugno 1992, n. 358, secondo il quale «il diritto di accesso si esercita anche con riferimento agli atti del procedimento ed anche durante il corso dello stesso».

L'istituto ha proposto appello, censurando le statuizioni in rito e in merito del giudice di primo grado e chiedendone l'integrale riforma.

La SIAC si è costituita anche in questo grado del giudizio, replicando diffusamente le tesi della ricorrente.

L'appello è stato trattenuto in decisione alla Camera di consiglio del 28 aprile 1998.

DIRITTO:

1. L'Istituto appellante sostiene in via preliminare, che il TAR avrebbe errato, allorchè ha disatteso la inammissibilità del ricorso per mancata autonoma impugnazione del regolamento, sul rilievo che l'impugnativa del regolamento è stata prospettata solo come eventuale e subordinata e che, comunque, il regolamento stesso è stato annullato con efficacia erga omnes con sentenza del TAR Lazio (Sezione III) n. 201 del 9 gennaio 1997, con la conseguenza che la richiamata norma regolamentare (art. 4) non ha più alcuna rilevanza nel giudizio.

Difatti, la sentenza del TAR Lazio avanti citata era stata sospesa con ordinanza di questo Consiglio di Stato (Sez. VI) n. 1029 del 6 giugno 1997, per cui il cennato regolamento conservava tutta la sua efficacia.

La Sezione osserva che il rilievo dell'Istituto appellante, pur se esatto in punto di fatto, non appare influente ai fini della decisione.

1.2. Conviene ricordare che il diniego di accesso opposto dall'I.N.A.I.L. alla documentazione medica connessa al procedimento di accertamento sulla natura professionale di un infortunio subito dal lavoratore è stato motivato con il richiamo all'art. 4, ultimo comma, ultimo periodo, del Regolamento I.N.A.I.L., in base al quale «Quando il diritto di accesso concerne informazioni di carattere sanitario, queste non possono essere comunicate che alla persona fisica interessata o al medico da quest'ultima designato».

Poiché la società ricorrente ha impugnato il diniego di accesso per vizi derivati dalla norma regolamentare, si tratta i verificare se, nell'ambito del processo instaurato con l'actio ad exibendum di cui all'art. 25 legge 241 del 7 agosto 1990; debba trovare applicazione il principio tradizionale, secondo il quale nei confronti della norma regolamentare asseritamente illegittima il giudice amministrativo dispone in generale soltanto del potere di annullamento, subordinato ad una tempestiva impugnazione.

La Sezione ritiene che al quesito debba darsi risposta negativa.

Si deve, in proposito, rilevare che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, con una serie di recenti pronunce (Cfr., Sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154; Id., 24 luglio 1993, n. 799; id., 7 aprile 1995, n. 531), ha manifestato un orientamento in materia di disapplicazione dei regolamenti nel processo amministrativo decisamente diverso rispetto a quello tradizionale, ritenuto eccessivamente restrittivo.

In tale contesto è stato ritenuto che, in presenza di un conflitto fra fonte primaria ed atto di normazione secondaria che disciplini successivamente la medesima fattispecie in maniera contrastante con la prima, la norma di rango secondario, anche se non impugnata, deve considerarsi recessiva e quindi inapplicabile come regola di giudizio.

Tale orientamento appare meritevole di essere seguito anche per il particolare processo previsto dall'art. 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nell'ambito del quale la disapplicazione può prescindere dalla natura delle posizioni soggettive in gioco (diritto soggettivo o interesse legittimo), per investire la rilevabilità d'ufficio dell'obiettiva esistenza di un atto regolamentare in contrasto con una superiore disposizioni di legge, secondo i principi della gerarchia delle fonti contenuti negli artt. 1, 3 e 5 disposizioni preliminari al codice civile.

Deriva da quanto sopra che, allorquando il diniego di accesso trova la sua giustificazione in una norma regolamentare che si assume in contrasto con il contenuto del diritto di accesso garantito dalla norma di rango superiore, il giudice amministrativo adito per l'annullamento del rifiuto può comunque procedere alla «disapplicazione» della norma secondaria in contrasto con la legge, senza che occorra una formale impugnazione del regolamento stesso.

2. Passando al merito, si è visto che il diniego all'accesso è stato giustificato in forza dell'art. 4, ultimo comma, ultimo periodo del Regolamento di attuazione INAIL, secondo il quale: «Quando il diritto di accesso concerne informazioni di carattere sanitario, queste non possono essere comunicate che alla persona fisica interessata o al medico da quest'ultima designato».

Anche se nell'iter argomentativo della sentenza la norma regolamentare non assume rilievo perché ritenuta non vigente, è chiaro che alla stregua delle considerazioni prima svolte l'indagine deve essere anzitutto diretta a verificare la rispondenza o meno di tale disposizione alla normativa di rango primario contenuta nell'art. 24, secondo comma, lett. d) della legge 241 del 1990 e dell'art. 8, n. 5, lett. d) del D.P.R. 352 del 1992, contenente il regolamento di attuazione.

Il giudice di primo grado, dopo avere riconosciuto l'interesse del datore di lavoro a conoscere gli atti concernenti l'indennizzabilità della malattia professionale denunciata dai suoi dipendenti, in ragione del pregiudizio morale e professionale che il datore di lavoro può subire da un positivo accertamento del nesso causale fra malattia e servizio del lavoratore, ha escluso che l'ostensibilità degli atti in parola possa trovare ostacolo nelle esigenze di tutela della riservatezza come sostenuto dall'Istituto.

Ha osservato in proposito che l'art. 24 secondo comma lettera d) della legge 241 del 1990 ed il conforme art. 8 n. 5 lett. d) del D.P.R. n. 352 del 1992 garantiscono comunque – pure a fronte di esigenze di riservatezza in capo a soggetti terzi – la visione degli atti agli interessati, e la conoscenza sia necessaria per curare o difendere i loro interessi giuridici.

Ha poi precisato che lo stesso art. 24, quarto comma legge 241 del 1990 – allorchè demanda alle singole Amministrazioni di stabilire «le categorie di documenti…sottratte all'accesso per le esigenze di cui al secondo comma» – consente solo una individuazione tipologica dei relativi atti collegati alle esigenze ivi previste, senza alcuna possibilità di alterare i criteri delimitativi esposti nel secondo comma, il quale, mentre garantisce in maniera assoluta (senza possibilità di accesso) le esigenze di riservatezza connesse alla sicurezza, all'ordine pubblico e alla politica monetaria dello Stato, considera invece la esigenza di riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese recessiva a fronte della cura (in corso di procedimento) e della difesa (a procedimento concluso) degli interessi giuridici dell'istante.

2.1. Come rileva l'Istituto appellante la questione è stata più volte esaminata dalla Sezione, che è sempre pervenuta a conclusioni opposte a quelle del Tribunale sia sotto il profilo generale (cfr. Sez. VI, 5 gennaio 1995, n. 12 e 15 aprile 1996, n. 563) sia con riferimento specifico alla norma regolamentare (Sez. VI, 22 maggio 1998, N. 802) dell'INAIL.

Di tale orientamento è consapevole anche la società appellata che ne sollecita una revisione avuto riguardo sia alla pronuncia dell'Adunanza plenaria n. 5 del 4 febbraio 1997 sia alla circostanza che l'interesse alla base della domanda di accesso non ha natura preminentemente economica.

La Sezione – pur apprezzando le diffuse argomentazioni svolte a sostegno di una combinata lettura dell'art. 4, ultimo comma, ultimo periodo e 19 del regolamento INAIL, che dovrebbe indurre a ritenere che il concreto ed effettivo interesse dell'azienda all'accesso, da assumere nel bilanciamento degli interessi coinvolti, travalichi le motivazioni di solo ordine economico fino a comprendere la sfera di libertà del datore di lavoro – deve, però, rilevare che allo stato un ulteriore approfondimento trovi un ostacolo insormontabile nella legge 31 dicembre 1996, n. 675, sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali.

Il TAR, argomentando dall'art. 43, comma 2 della legge 675 del 1996, il quale mantiene ferme «le vigenti norme in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi ed agli archivi di Stato» – ha ritenuto che la legge citata non ha introdotto innovazioni di alcun tipo nella disciplina delle modalità e dei limiti del diritto di accesso.

Ha aggiunto, altresì, che il diritto alla riservatezza non è tutelato né dalla Costituzione né dalla legge n. 675 del 1996 «in termini così assoluti da impedire ogni ingerenza nella privacy», specie se posto a confronto del diritto della difesa, che invece è dotato di rilievo costituzionale.

Le considerazioni del TAR non possono essere condivise.

Si può convenire che alla stregua dell'art. 43 citato la legge n. 675 del 1996 non può modificare quelle parti della disciplina del diritto di accesso, che trovano una compiuta regolamentazione nella legge n. 241 del 1990. Non si può invece, concordare, con l'affermazione, implicita nell'iter argomentativo della sentenza, che la legge n. 675 del 1996 non sia in grado di proiettare i suoi effetti anche sul rapporto che, alla stregua della legge n. 241 del 1990, intercorreva tra contenuto della riservatezza e diritto di accesso.

Non può, invero, disconoscersi che la legge n. 241 del 1990, quando parla di «riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese» come limite all'esercizio del diritto di accesso, non fornisce alcuna idonea descrizione normativa del contenuto di detto limite, per cui appare del tutto logico che tale carenza possa essere colmata dalla precisa indicazione dei dati personali nei termini in cui essi sono disciplinati dalla legge n. 675 del 1996.

Quest'ultima individua i dati personali riguardanti la riservatezza degli individui, dei gruppi e delle imprese, indica i criteri per il loro trattamento, comprensivo della loro comunicazione a terzi e specifica a quali condizioni essa possa avvenire nei casi consentiti. Ne deriva che anche in presenza di una domanda di accesso, la comunicazione di dati personali contenuti nei documenti richiesti debba avvenire nel rispetto delle condizioni fissate dalla legge n. 675 del 1996, condizioni che per i soggetti pubblici sono contenute nell'art. 22, comma 3 della legge, secondo il quale tali soggetti possono trattare i dati sensibili, inclusi quelli attinenti alla salute, soltanto su autorizzazione di «espressa disposizioni di legge nelle quale siano specificati i dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite», e nell'art. 27, comma 5 della legge medesima, secondo cui «la comunicazione e la diffusione dei dati personali da parte dei soggetti pubblici a soggetti privati…sono ammesse solo se previste da norme di legge o di regolamento».

Ora, contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, le disposizioni appena richiamate non possono non dispiegare i loro effetti allorchè si tratta di decidere dell'accessibilità dei documenti richiesti, che riguardano dati da trattare secondo le modalità di cui all'art. 22, comma 3, in quanto concorrono a regolamentare materia non compiutamente disciplinata dalla legge n. 241 del 1990, e, quindi, colmano la lacuna contenuta in tale ultima legge.

Da ciò la conseguenza che dopo l'entrata in vigore della legge n. 675 del 1996, nel caso di richiesta di accesso a documenti contenenti dati personali sensibili relativi a terzi posseduti da una pubblica amministrazione, il diritto alla difesa prevale su quello alla riservatezza solo se una posizione di legge espressamente consente al soggetto pubblico di comunicare a privati i dati oggetto della richiesta.

Non costituisce ostacolo a tale conclusione la circostanza, messa a rilievo della sentenza appellata, che numerose disposizioni di legge consentono, ed in alcuni casi impongono, al datore di lavoro di conoscere, sia pure a mezzo di un medico designato, le condizioni di salute dei lavoratori.

La tesi accolta non disconosce al datore di lavoro la possibilità di trattare dati personali sensibili dei lavoratori allorchè la legge lo consenta, ma non comporta altresì che detti dati siano acquisiti, invece che attraverso le visite periodiche rientranti nelle misure necessarie da adottare a difesa della salute dei lavoratori, mediante richiesta ad una pubblica amministrazione, la quale li detiene per finalità diverse e non risulta autorizzata espressamente dalla legge a comunicarli a privati.

A conforto di tale affermazione si può rilevare che l'art. 27, comma 2 della legge n. 675 del 1996 riconosce la possibilità di comunicare a soggetti dei dati personali anche al di fuori di previsione di legge o di regolamento, ove gli stessi siano necessari per il perseguimento delle loro finalità istituzionali, mentre analoga possibilità non è prevista dal successivo comma 3 per le comunicazioni di dati a privati, per i quali il limite della previsione di legge e, per dati personali non sensibili, di regolamento appare invalicabile.

Del resto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare (Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 gennaio 1998, n. 115) che il diritto alla difesa non deve essere assolutizzato rispetto a quello della riservatezza, dovendo l'amministrazione adottare tutte le precauzioni necessarie per limitare al minimo le lesioni che a quest'ultimo possono derivare dall'esercizio del diritto di difesa. Affermazione che si spiega solo se si tiene presente che mentre le esigenze conoscitive connesse all'esercizio del diritto alla difesa possono sempre trovare soddisfazione in sede giurisdizionale, attraverso la richiesta al giudice adito di ordinare all'amministrazione l'esibizione e il deposito degli atti nel corso del processo, viceversa il diritto alla riservatezza viene immediatamente leso dalla possibilità offerta da un soggetto pubblico nei confronti dei terzi di conoscere, al di fuori di esplicite e tassative previsioni di legge, dai personali relativi alla salute.

Si deve, pertanto, concludere che è alla legge n. 675 del 1996 che occorre fare riferimento per individuare l'effettivo contenuto di uno dei casi di esclusione del diritto di accesso, quale è appunto quello connesso alla tutela della riservatezza e tale conclusione non sembra confliggere con il provvedimento n. 1/97 in data 19 novembre 1997, concernente l'autorizzazione al trattamento dei dati sensibili nei rapporti di lavoro, trattandosi di autorizzazione che, fermo restando l'obbligo di acquisire il consenso dell'interessato, è riferita alla necessità di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.

4. Resta da esaminare la questione della portata prescrittiva della pronuncia emessa in questo particolare tipo di processo.

Il TAR, muovendo dalla considerazione che il diritto di accesso è una posizione soggettiva unica, propria sia di chi partecipa al procedimento sia di chi ha un interesse a conoscere documenti amministrativi già formati, ha ritenuto che esso possa essere esercitato anche per valutare l'opportunità di partecipare al procedimento; da qui la necessità di sospendere i termini del procedimento in corso per consentire all'impresa richiedente di poter visionare i documenti e valutare se effettuare o meno il suo intervento partecipativo.

Secondo il giudice di primo grado «se il Tribunale si limitasse ad ordinare la solo esibizione dei documenti e l'amministrazione potesse nel frattempo consentire l'ulteriore corso del procedimento, il diritto di prendere visione degli atti del procedimento di cui all'art. 10, lett. a) – di certo strumentale all'esercizio del diritto di intervento nel procedimento di cui alla successiva lett. b) – potrebbe nella sostanza essere vanificato».

Anche in merito a tale aspetto della controversia le considerazioni del giudice di primo grado non possono essere condivise.

Una cosa è la legittimazione soggettiva all'esercizio del diritto di accesso, altra cosa è la legittimazione a partecipare al procedimento: il possesso della prima non comporta di per sé anche il diritto di partecipazione al procedimento. Questo in genere preesiste al diritto di accesso, mentre ove non lo sia deve essere individuato con rito del tutto diverso da quello di cui all'art. 25 della legge n. 241 del 1990.

Il contenuto satisfattivo della pronuncia ex art. 25 legge 241 del 1990 delineata dal legislatore è limitato all'ordine di esibizione dei documenti, e non può comprendere un ordine di ingresso partecipativo nel procedimento medesimo. La tutela giudiziale esperibile con il particolare processo in esame attiene, infatti, alla sola «trasparenza» dell'azione amministrativa, e non consente la tutela del diritto alla «partecipazione», la cui eventuale violazione può essere fatta valere, a procedimento concluso, attraverso l'ordinario giudizio di legittimità, per vizi di omesso contraddittorio, nei confronti del provvedimento finale.

La univoca volontà legislativa è nel senso di riservare lo speciale rito ex art. 25 legge 241 del 1990 alle sole questioni connesse al rifiuto di esibire atti o documenti amministrativi, posponendo a procedimento concluso ogni questione attinente a qualsiasi altro vizio consumato durante il procedimento stesso.

5. La esclusiva preordinazione dell'actio ad exhibendum alle sole questioni cognitorie di atti o documenti conduce anche ad escludere la configurabilità di pronunce cautelari preordinate a sospendere il procedimento in attesa dell'avvenuto accesso.

Il giudizio in esame, connotato da un rito camerale di urgenza appare incompatibile con la fare infraprocedimentale della cautela di cui rappresenterebbe un illogico bis in idem.. Nel caso di specie, peraltro, non potrebbe invocarsi l'art. 21 della legge 1034 del 1971, che è norma afferente ad una fase interna al giudizio cognitorio ordinario, laddove la richiesta sospensione del procedimento amministrativo si atteggerebbe non come tutela anticipata meramente cautelare, bensì come un effetto della decisione definitiva di merito.

6. In conclusione, l'appello deve essere accolto e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso di primo grado.

Spese e competenze di lite possono essere compensate, sussistendo giusti motivi.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. VI), definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.

Spese compensate.

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