CASSAZIONE 28 LUGLIO 2006, N. 26795.
Corte di Cassazione Penale. Sezioni Unite
RITENUTO IN FATTO
1. Antonio Tizio ha proposto ricorso per cassazione contro l'ordinanza del 18 marzo 2005 con la quale il Tribunale di Perugia ha confermato la misura della custodia in carcere disposta nei confronti del ricorrente dal giudice per le indagini preliminari dello stesso tribunale.
La misura era stata applicata per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti in materia di prostituzione e per numerosi delitti scopo, previsti dall'art. 3, n. 3, 4, 6, 8, l. 20 febbraio 1958, n. 75 e aggravati ai sensi del successivo art. 4, n. 7, della stessa legge. In particolare a Tizio era stato contestato di essersi associato con altri per far svolgere in un locale pubblico di Bastia Umbra, denominato “Alfa”, la prostituzione da parte numerose ragazze, presenti come ballerine di lap dance, di averle in più occasioni reclutate e di avere poi favorito e sfruttato la loro prostituzione.
Come risulta dall'ordinanza impugnata, il 25 giugno 2004 i carabinieri della stazione di Bastia Umbra avevano effettuato un sopralluogo, all'interno del locale “Alfa” ove era in corso uno spettacolo di lap dance. Al piano terra del locale c'era una pista, adibita a palcoscenico, circondata dai posti a sedere riservati al pubblico; al piano superiore, costituito da un soppalco collegato con la sala per mezzo di una scala, erano stati ricavati dei camerini, denominati “privés”, separati dal corridoio mediante pesanti tende, e arredati con un divanetto, con un tavolino e con sedie.
Al momento dell'accesso “era in corso uno spettacolo di lap dance ove l'artista, completamente nuda, con musica di sottofondo, ballava strofinando i propri organi sessuali contro un palo metallico posto verticalmente sulla pista”. Nei privés i carabinieri avevano sorpreso due coppie: gli uomini, “con i pantaloni indosso, … erano seduti sul divanetto” e le donne, nude, “erano sedute, a gambe divaricate, sul bacino dell'uomo” e strofinavano “il pube contro gli organi sessuali” di questo.
Dalle dichiarazioni dei clienti e del personale dipendente era emerso che per appartarsi nei privés per dieci minuti con la ragazza prescelta occorreva pagare alla cassiera cinquanta euro. Gli addetti al locale controllavano che il cliente nel privé rispettasse le regole, e in particolare quella di non spogliarsi; al termine dei dieci minuti aprivano la tenda per mettere fine alle effusioni, che potevano però continuare se il cliente pagava immediatamente altri cinquanta euro.
In seguito all'informativa dei carabinieri il p. m. aveva chiesto al g.i.p. l'autorizzazione a effettuare alcune intercettazioni telefoniche e a disporre “operazioni di ripresa visiva” all'interno del “Alfa”. Le richieste erano state accolte e le videoriprese erano state autorizzate con un modulo, prestampato, che faceva riferimento a “intercettazioni di conversazioni telefoniche tra presenti”.
Le videoriprese erano state eseguite con apparecchi di captazione e trasmissione a distanza, ovvero con un sistema di microtelecamere posizionate sul soffitto del locale, in modo da riprendere ad ampio raggio ciò che avveniva al suo interno, anche nei privés, che erano privi del soffitto.
Per quanto in particolare concerne la posizione di Tizio, l'ordinanza applicativa della misura cautelare aveva, tra l'altro, posto in risalto il carattere gravemente indiziante delle intercettazioni telefoniche, dalle quali emergeva come questi – formalmente assunto per fare il direttore di sala – avesse il compito di reclutare e indirizzare le ragazze nel locale, ben consapevole dell'attività alla quale esse erano destinate.
In seguito alla richiesta di riesame, il Tribunale di Perugia, come si è detto inizialmente, ha confermato il provvedimento cautelare, avendo ritenuto privi di fondamento i motivi di impugnazione, relativi alla inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche, per mancanza di motivazione dei decreti autorizzativi, e alla inutilizzabilità delle riprese visive eseguite all'interno dei privés.
Il 25 marzo 2005 il g.i.p. ha sostituito la misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari e successivamente, il 4 maggio 2005, l'ha sostituita con quella del divieto di dimora nel territorio della Regione Umbria.
A sostegno del ricorso Tizio ha enunciato tre motivi:
con i primi due ha dedotto l'inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni disposte, anche in fase di proroga, per “totale assenza di motivazione” dei decreti autorizzativi: il g.i.p. avrebbe motivato i decreti solo per relationem, richiamando – attraverso un mero rinvio recettizio – la richiesta del p.m. e le informative della polizia giudiziaria (di cui la prima priva della indicazione della data), senza dare conto dell'autonoma valutazione effettuata sul contenuto degli atti recepiti;
con il terzo motivo ha sostenuto l'inutilizzabilità delle riprese visive in quanto effettuate contra legem, in mancanza di una specifica disciplina normativa della materia, che, considerata la riserva di legge contenuta negli articoli 13 e 14 Cost., sarebbe stata necessaria per consentire all'autorità giudiziaria di disporre l'intrusione nella sfera domiciliare; il ricorrente ha aggiunto che se si volessero giustificare le riprese visive in ambito domiciliare applicando l'art. 189 c.p.p. sulle prove atipiche si porrebbe “comunque il problema del pregiudizio arrecato alla libertà morale” e “della difficoltosa riconduzione allo schema che impone una anticipata valutazione del potenziale pregiudizio rispetto alla “assunzione” della prova”.
2. La terza sezione di questa Corte, con ordinanza del 18 ottobre 2005, dopo avere espresso l'opinione che i primi due motivi, relativi alle intercettazioni telefoniche, fossero privi di fondamento, ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite rilevando, con riferimento al terzo motivo, che nella giurisprudenza esiste un contrasto sulla “legalità”, e correlativamente sulla utilizzabilità, della prova acquisita attraverso la captazione di immagini in luoghi di privata dimora.
Nell'ordinanza la terza sezione ha ricordato i principi fissati in materia dalla sentenza della Corte costituzionale n. 125 del 2002: la necessità, ai fini del superamento della garanzia della inviolabilità del domicilio, non solo di un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, ma anche di una compiuta disciplina legislativa delle ipotesi e delle modalità di limitazione della garanzia costituzionale; la riconducibilità della sola captazione visiva di comportamenti di tipo comunicativo in luoghi di privata dimora alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti, restando però impregiudicata la questione di costituzionalità delle ipotesi di videoregistrazione di immagini che non abbiano tale carattere; la necessità di una regolamentazione legislativa, in conformità dell'art. 14 Cost. nel caso di intrusione del domicilio con riprese visive non finalizzate alla intercettazione di comunicazioni
Secondo l'ordinanza di rimessione, mentre questi principi avrebbero trovato puntuale applicazione in talune sentenze della S.C. ( Sez. VI, 10 novembre 1997, n. 4397, Greco, rv. 210063, secondo cui non è consentita in luoghi di privata dimora la captazione di immagini relative alla mera presenza di cose o persone o ai loro movimenti, non funzionali alla captazione di messaggi; Sez. I, 29 gennaio 2003, n. 16965, Augugliaro, rv. 224240 e Sez. IV, 19 gennaio 2005, n. 11181, Besnik, rv. 231047, secondo cui i risultati delle videoregistrazioni effettuate con una videocamera all'interno di una abitazione privata sono utilizzabili solo se le videoregistrazioni sono dirette a captare forme di comunicazione gestuale), in altre sarebbe stato accolto un diverso orientamento, al quale avrebbe dato adesione l'ordinanza impugnata, secondo cui le riprese video andrebbero considerate come “prove documentali non disciplinate dalla legge”, previste dall'art. 189 c.p.p., e sottratte pertanto al genus delle intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni, con il limite del rispetto della libertà morale della persona, sancito in via generale dall'art. 14 Cost., la cui valutazione sarebbe rimessa di volta in volta al giudice (Sez. IV, 18 giugno 2003, n. 44484, Kazazi, rv. 226407; Sez. V, 25 marzo 1997, n. 1477, Lomuscio, rv.208137; Sez. V, 7 maggio 2004, n. 24715, Massa, rv. 228732).
Pur dichiarando di aderire all'indirizzo secondo cui anche le prove “atipiche” o i mezzi di ricerca della prova o i mezzi di indagine non disciplinati dalla legge non possono essere utilizzati se le modalità di acquisizione sono in contrasto con norme di legge, dal momento che una diversa soluzione farebbe della prova atipica uno strumento per rendere utilizzabili prove illegittimamente acquisite, il Collegio ha considerato necessario un intervento delle Sezioni unite per ricomporre il quadro interpretativo di una materia assai delicata per gli evidenti risvolti di natura costituzionale.
Secondo la sezione rimettente, ai fini della decisione occorre affrontare la seguente questione: “se le riprese video filmate in luogo di privata dimora siano consentite ove si fuoriesca dall'ipotesi della videoregistrazione di comportamenti di tipo comunicativo e se esse siano da ricomprendere nella disciplina della intercettazione delle comunicazioni e debbano, quindi, essere autorizzate ai sensi dell'art. 266 e seg. c.p.p. o rappresentino, invece, prove documentali non disciplinate dalla legge a norma dell'art. 189 c.p.p.”
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Come risulta dalla precedente esposizione, dopo la pronuncia dell'ordinanza di riesame la misura della custodia in carcere, applicata al ricorrente, è stata sostituita prima con quella degli arresti domiciliari e poi con quella del divieto di dimora, perciò occorre chiedersi se permanga l'interesse al ricorso.
La risposta deve essere affermativa. Certo, in seguito alla sostituzione della originaria misura cautelare la condizione del ricorrente è radicalmente cambiata, ma in mancanza di un suo riconoscimento in tal senso non può dirsi che sia venuto meno l'interesse al ricorso, sia perché i gravi indizi di colpevolezza posti dal g.i.p. e dal tribunale del riesame a fondamento dell'originaria misura della custodia in carcere condizionano anche l'applicazione del divieto di dimora, sia perché, secondo la giurisprudenza di queste Sezioni unite, anche nel caso limite della revoca della misura cautelare permane l'interesse al ricorso, dato che l'applicazione della misura potrebbe “costituire per l'interessato, ai sensi dell'art. 314, comma 2, c.p.p., presupposto del diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente, essendo stato il provvedimento coercitivo emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.” (Sez. un. 13 luglio 1998, Gallieri, rv 211194; analogamente, in precedenza, Sez. un., 12 ottobre 1993, Durante, rv. 195355; Sez. un., 12 ottobre 1993, Corso, rv. 195357).
Come ha già osservato la terza sezione nell'ordinanza di rimessione i primi due motivi di ricorso, relativi alle intercettazioni telefoniche, sono privi di fondamento.
Secondo il ricorrente l'ordinanza impugnata ha errato nel negare che i decreti autorizzativi delle intercettazioni fossero privi di motivazione, considerandoli adeguatamente giustificati in virtù del rinvio fatto dal g.i.p. alla richiesta del p.m. e alle note della polizia giudiziaria che l'accompagnavano. In particolare sarebbe inconsistente il rinvio operato nel primo decreto autorizzativo “con la nuda locuzione “nota CC Bastia Umbra” senza neppure data o altro elemento identificativo”.
Al contrario di quanto ha sostenuto il ricorrente deve ritenersi che l'ordinanza impugnata abbia fatto corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni unite. Queste infatti hanno riconosciuto che il decreto autorizzativo delle intercettazioni può essere motivato anche con un rinvio alla richiesta del p.m. e agli atti della polizia giudiziaria, purché “si possa dedurre l'iter cognitivo e valutativo seguito dal giudice e se ne possano conoscere i risultati, che debbono essere conformi alle prescrizioni della legge” (Sez. un., 21 giugno 2000, Primavera; ved. anche Sez. un., 26 novembre 2003, Gatto). E questo approdo ben può essere raggiunto anche con un modulo a stampa integrato con le parole idonee e realizzare il collegamento con gli atti richiamati, specie quando essi, come è accaduto nel caso in esame, siano di per sé eloquenti. Né una volta allegata al provvedimento autorizzativo la nota dei carabinieri la motivazione per relationem poteva ritenersi carente, come ha prospettato il ricorrente, solo perché non ne erano stati specificati i dati identificativi, infatti l'allegazione fisica dell'atto aveva determinato un'integrazione materiale (e non solo ideale) del decreto, di modo che i dati identificativi della nota di polizia giudiziaria risultavano senza incertezza dalla lettura integrale del provvedimento.
2. Il terzo motivo riguarda le riprese visive nei privés e l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale ha indotto la terza sezione a rimetterne l'esame alle Sezioni unite.
La materia delle riprese visive e delle prove che ne scaturiscono non è regolata specificamente dalla legge ed è stata più volte rappresentata l'esigenza di un intervento regolatore del legislatore, anche rispetto alle riprese che non avvengono in ambito domiciliare e non incontrano perciò i limiti posti dall'art. 14 Cost. Si tratta di un mezzo di prova al quale non si può rinunciare, per il fortissimo contenuto informativo che possiede e che, assai più di quanto possano esserlo altri mezzi, lo fa portatore di certezze processuali, come ha riconosciuto in modo significativo lo stesso legislatore quando nell'art. 8 comma 1 ter l. n. 401 del 1989 e succ. modif., per i reati commessi in occasione di manifestazioni sportive, ha stabilito che “si considera in stato di flagranza colui il quale, sulla base di documentazione video fotografica o di altri elementi oggettivi dai quali emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore”.
In mancanza di regole probatorie specifiche la giurisprudenza e la dottrina hanno fatto riferimento alle disposizioni riguardanti altre prove e ai principi processuali per trarre indicazioni sulla disciplina applicabile alle riprese visive e sulla utilizzabilità dei risultati ottenuti. Sono emerse opinioni non univoche, non solo sulla questione più complessa, relativa alle riprese visive in ambito domiciliare, ma anche più in generale sulle caratteristiche del mezzo di prova e sulle norme alle quali deve essere ricondotto.
Il tema da affrontare propone dunque due questioni, quella relativa alle riprese visive in genere, e quella, più specifica, relativa alle riprese visive in ambito domiciliare, rispetto alle quali la mancanza di una regolamentazione normativa aggiunge ai dubbi sulla natura e la formazione della prova altri e ben più consistenti dubbi sulla loro legittimità, data la doppia riserva di legge che l'art. 14, comma 2, Cost. ha posto a tutela del domicilio.
3. La giurisprudenza di legittimità ritiene pacificamente utilizzabili come prova le immagini tratte da riprese visive in luoghi pubblici, tanto se avvenute al di fuori del procedimento (nella maggior parte dei casi si tratta di videoregistrazioni effettuate con impianti di videosorveglianza, installati in esercizi pubblici), quanto se avvenute nell'ambito delle indagini di polizia giudiziaria.
Secondo un orientamento giurisprudenziale le videoriprese vanno incluse nella categoria dei “documenti”, dato che l'art. 234 c.p.p., innovando rispetto all'abrogato codice, di rito comprende in tale categoria le rappresentazioni di “fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”. Come espressione di questo orientamento, con riferimento ad attività extraprocessuali, si possono ricordare Sez. V, 18 ottobre 1993, n. 10309, Fumero, rv. 195556 (relativa a una videoregistrazione effettuata con un apparecchio installato in un negozio), Sez. III, 15 giugno 1999, n. 11116, Finocchiaro, rv. 214457 (relativa a riprese aeree) e Sez. V, 20 ottobre 2004, n. 46307, Held ed altri, rv. 230394 (relativa a riprese tramite telecamere a circuito chiuso).
Varie decisioni hanno fatto riferimento all'art. 234 c.p.p. anche per riconoscere il valore probatorio di riprese effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari: in questo senso si sono pronunciate Sez. IV, 13 dicembre 1995, n. 1344, Petrangeli, rv. 204048, Sez. V, 25 marzo 1997, n. 1477, Lomuscio, rv. 208137 e Sez. VI, 10 dicembre 1997, n. 4997, Pani, rv. 210579.
Secondo un diverso orientamento, le riprese visive effettuate in luoghi pubblici devono invece essere inquadrate nell'ambito delle prove atipiche, previste dall'art. 189 c.p.p., tanto se avvenute al di fuori del procedimento (Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 43491, Tarantino, rv. 220261, con riferimento a riprese effettuate da una videocamera collocata all'esterno di una banca), quanto se avvenute nell'ambito delle indagini. In particolare, con riferimento a questa ipotesi, si è detto che astrattamente il risultato delle riprese visive costituisce una prova documentale ex art. 234, comma 1, c.p.p., e come tale può essere utilizzato a fini probatori, sebbene il codice di rito non ne disciplini le modalità di acquisizione e le regole di utilizzazione. Ciò, verosimilmente, in quanto il legislatore ha avuto di mira esclusivamente il documento cinematografico “precostituito” e non il frutto di una ripresa visiva costituente mezzo di ricerca della prova. In questa prospettiva le riprese visive rappresenterebbero piuttosto una prova “atipica” (art. 189 c.p.p.), da acquisire con modalità che non si pongano in conflitto con norme di legge, e qualora venissero effettuate (per fini di interesse pubblico quali quelli delle prevenzione e repressione dei reati) in un luogo pubblico o aperto al pubblico non incontrerebbero alcun limite, perché la natura del luogo in cui si svolge la condotta implicherebbe una implicita rinunzia alla riservatezza (Sez. IV, 16 marzo 2000, n. 7063, Viskovic, rv. 217688). Anche secondo Sez. VI, 21 gennaio 2004, n. 7691, Flori, rv. 229003 e Sez. IV, 18 marzo 2004, n. 37561, Galluzzi, rv. 229137, le riprese visive effettuate dalla polizia giudiziaria in luoghi pubblici o aperti al pubblico sono un mezzo atipico di ricerca della prova e non necessitano della preventiva autorizzazione dell'autorità giudiziaria, in quanto le garanzie previste dall'art. 14 Cost. si applicano solo per le captazioni visive che riguardano luoghi di privata dimora. Nello stesso senso si è espressa, da ultimo, Sez. V, 7 maggio 2004, n. 24715, Massa, rv. 228732, con riferimento a riprese effettuate dalla polizia giudiziaria tramite telecamere installate in un garage condominiale aperto al transito di un numero indeterminato di persone.
Ipotesi più specifica è quella dell'attività captativa di immagini nell'ambito delle operazioni di osservazione e pedinamento da parte della polizia giudiziaria, delle quali sono state ritenute acquisibili agli atti del dibattimento le relazioni di servizio attestative e documentative (mediante fotografie e filmati) delle attività svolte (Sez. II, 26 marzo 1997, n. 4095, Baldini, rv. 207827) o nell'ambito di una perquisizione locale, in quanto la esecuzione di quest'ultima comprende per definizione l'attività di ispezione e di documentazione, e la fotografia, mezzo tecnico idoneo a “fissare ed a prolungare la visione”, altro non è che una modalità in cui può atteggiarsi la doverosa descrizione (Sez. II, 22 maggio 1997, n. 3513, Acampora, rv. 208076).
4. Non sempre è chiara nella giurisprudenza la distinzione concettuale tra la prova documentale dell'art. 234 c.p.p. e la prova atipica dell'art. 189 c.p.p., e talvolta si ha l'impressione che le immagini videoriprese siano considerate al tempo stesso documenti e prove atipiche, cioè documenti formati attraverso una prova atipica. In realtà le due norme non sono complementari ma individuano forme probatorie alternative; come ha chiarito la Relazione al Progetto preliminare del vigente codice di rito, la distinzione tra documenti e atti del procedimento è netta perché “le norme sui documenti sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del processo nel quale si chiede o si dispone che essi facciano ingresso” (Gazzetta ufficiale, supplemento n. 2 del 24 ottobre 1988, p. 67). Del resto questa distinzione trova riscontro anche nella giurisprudenza più avvertita della Corte di cassazione, la quale ha avuto occasione di precisare che “ai fini dell'ammissione delle prove documentali sono necessarie due condizioni: a) che il documento risulti materialmente formato fuori, ma non necessariamente prima, del procedimento; b) che lo stesso oggetto della documentazione extraprocessuale appartenga al contesto del fatto oggetto di conoscenza giudiziale e non al contesto del procedimento” (Sez. V, 13 aprile 1999, n. 6887, Gianferrari, rv. 213606; Sez. V, 16 marzo 1999, n. 5337, Di Marco, rv. 213183).
Ciò significa che solo le videoregistrazioni effettuate fuori dal procedimento possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale (si pensi ad esempio, oltre che ai casi citati, alle videoregistrazioni di violenze negli stadi), mentre le altre, effettuate nel corso delle indagini, costituiscono, secondo il codice, la documentazione dell'attività investigativa, e non documenti. Esse perciò sono suscettibili di utilizzazione processuale solo se sono riconducibili a un'altra categoria probatoria, che la giurisprudenza per le riprese in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico ha individuato in quella delle c.d. prove atipiche, previste dall'art. 189 c.p.p.
Si è obiettato che l'art. 189 c.p.p. prevede un contraddittorio tra le parti davanti al giudice “sulle modalità di assunzione della prova”, mentre le riprese visive, come atti di indagine, avvengono senza alcun preventivo contraddittorio. Facendo riferimento a categorie tradizionali può però rilevarsi che l'obiezione non distingue il mezzo di ricerca della prova, costituito dalla ripresa visiva, dalla videoregistrazione, cioè dal supporto sul quale sono fissate le immagini riprese, fonte di prova, e dal mezzo di prova, che è lo strumento attraverso il quale si acquisisce nel processo il contenuto rappresentativo del supporto, vale a dire quello che sarà l'elemento di prova. Il contraddittorio previsto dall'art. 189 c.p.p. non riguarda la ricerca della prova ma la sua assunzione e interviene dunque, come risulta chiaramente dalla disposizione, quando il giudice è chiamato a decidere sull'ammissione della prova.
L'esecuzione delle riprese visive lascia impregiudicata la questione sulla ammissibilità della prova che ne deriva (sulla quale dovrà pronunciarsi il giudice quando sarà richiesto della sua assunzione nel dibattimento) e sulla determinazione dello strumento (perizia o mera riproduzione) che dovrà essere utilizzato per conoscere e visionare le immagini acquisite.
E' stata anche posta e dibattuta la questione sulla possibilità di inserire le videoregistrazioni nel fascicolo per il dibattimento, a norma dell'art. 431, comma 1, lett. b) c.p.p., considerandole alla stregua di verbali di atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (in questo senso Sez. I, 8 ottobre 1997, n. 10145, Mangiolfi, rv. 208736, con riferimento a fotografie di un blocco stradale), e si è detto che mentre nessuna difficoltà si frappone all'introduzione nel fascicolo per il dibattimento del verbale della polizia giudiziaria descrittivo delle attività compiute per effettuare la videoripresa, alla stessa conclusione non potrebbe pervenirsi per il supporto contenente le immagini riprese, che l'art. 431 c.p.p. non prevede, verosimilmente perché il legislatore sarebbe stato “attento soprattutto alle tradizionali forme di documentazione scritta”.
La conclusione negativa non convince dal momento che l'art. 134, comma 4, c.p.p. nel disciplinare la documentazione degli atti riconosce che al verbale “può essere aggiunta la riproduzione audiovisiva se assolutamente indispensabile”. In questo caso la riproduzione audiovisiva diventa un elemento integrativo del verbale, che deve accompagnarlo e che quindi, unitamente al verbale, è destinato a far parte del fascicolo per il dibattimento. Ciò però non significa che l'inserimento nel fascicolo per il dibattimento possa avere l'effetto di attribuire alla videoregistrazione valore probatorio senza il preventivo vaglio di ammissibilità da parte del giudice, dopo aver sentito le parti a norma dell'art. 189 c.p.p.
5. Di meno agevole soluzione è la questione sulla legittimità delle videoriprese in ambito domiciliare e conseguentemente sulla loro utilizzabilità probatoria.
Sulla questione è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza del 24 aprile 2002, n. 135. La questione era stata sollevata nel corso di un'udienza preliminare rispetto a riprese visive effettuate in base a un provvedimento del pubblico ministero. Il giudice aveva dubitato della legittimità costituzionale degli artt. 189 e 266-271 c.p.p. e, segnatamente, dell'art. 266, comma 2, c.p.p., nella parte in cui “non estendono la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall'art. 614 c. p. alle riprese visive o videoregistrazioni effettuate nei medesimi luoghi”. La questione mirava perciò a ottenere una pronuncia additiva che allineasse la disciplina processuale delle riprese visive in luoghi di privata dimora a quella delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti nei medesimi luoghi, e la decisione della Corte è stata negativa.
La Corte ha ritenuto che le riprese visive in ambienti domiciliari non siano precluse in modo assoluto dall'art. 14 Cost. e che il riferimento fatto dal legislatore costituente solo alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri “non è necessariamente espressivo dell'intento di “tipizzare” le limitazioni permesse, escludendo a contrario quelle non espressamente contemplate; poiché esso ben può trovare spiegazione nella circostanza che gli atti elencati esaurivano le forme di limitazione dell'inviolabilità del domicilio storicamente radicate e positivamente disciplinate all'epoca di redazione della Carta, non potendo evidentemente il Costituente tener conto di forme di intrusione divenute attuali solo per effetto dei progressi tecnici successivi”.
Esclusa pertanto l'esistenza nella Carta costituzionale di un divieto assoluto della forma di intrusione domiciliare in questione, la Corte ha affermato che la ripresa visiva quando è finalizzata alla captazione di “comportamenti a carattere comunicativo” “ben può configurarsi, in concreto, come una forma di intercettazione di comunicazioni tra presenti”, alla quale “è applicabile, in via interpretativa, la disciplina legislativa della intercettazione ambientale in luoghi di privata dimora”. Nel caso invece in cui si fuoriesca dalla videoripresa di comportamenti di tipo comunicativo non è possibile estendere alla captazione di immagini in luoghi tutelati dall'art. 14 Cost. la normativa dettata dagli artt. 266 e ss. c.p.p., “data la sostanziale eterogeneità delle situazioni: la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni, da un lato; l'invasione della sfera della libertà domiciliare in quanto tale, dall'altro”.
In conclusione, secondo la Corte, “L'ipotesi della videoregistrazione che non abbia carattere di intercettazione di comunicazioni potrebbe … essere disciplinata soltanto dal legislatore, nel rispetto delle garanzie costituzionali dell'art. 14 Cost.; ferma restando, per l'importanza e la delicatezza degli interessi coinvolti, l'opportunità di un riesame complessivo della materia da parte del legislatore stesso”.
6. La decisione non è priva di ambiguità perché fa apparire inammissibili le riprese visive di comportamenti non comunicativi effettuati in ambito domiciliare ma non lo dichiara espressamente, come sarebbe stato naturale in un contesto in cui le riprese erano avvenute nel presupposto che fosse applicabile la disposizione dell'art. 189 c.p.p. e il giudice aveva messo in discussione la legittimità costituzionale di questa norma, oltre che degli artt. 266-271 c.p.p.
E' chiaro che le regole di garanzia richieste dall'art. 14 Cost. e la disciplina dei casi e dei modi delle “intrusioni” domiciliari non possono rinvenirsi nell'art. 189 c.p.p., dato che la disposizione non le contiene, e per la sua naturale genericità non le potrebbe contenere, dovendo riferirsi a tutte le prove non disciplinate dalla legge. In questo senso sembra da leggere la sentenza della Corte, che con l'uso del condizionale nella parte conclusiva (dove si afferma che l'ipotesi in questione “potrebbe essere disciplinata soltanto dal legislatore”), fa intendere che allo stato una disciplina conforme all'art. 14 Cost. manca. Se ne dovrebbe dedurre che la mancanza renda illegittima la ripresa visiva e inammissibile la prova che si fondi sui risultati della stessa, ma questo la Corte non lo ha detto, lasciando permanere un margine di incertezza.
Un autore, nel commentare la sentenza, dopo aver criticato quegli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che negano valore probatorio alle prove c.d. incostituzionali ha sostenuto che “nulla, dunque, è dato desumere dall'art. 14 Cost. se non l'incostituzionalità delle norme ordinarie che – in difetto dei casi e modi e delle garanzie voluti dal legislatore costituente – conferiscono agli organi inquirenti e al giudice il potere di raccogliere e assumere prove lesive del diritto all'intimità domiciliare”. Conclusione che dovrebbe valere “anche per la videoregistrazione clandestina di immagini nel domicilio”, dato che secondo un'autorevole dottrina “i canoni costituzionali operano indirettamente; finché l'art. 189 non sia dichiarato illegittimo nella parte in cui non esclude prove ottenute con interferenze indebite nella vita privata domestica, niente osterà all'uso processuale del documento foto o cinematografico”.
Così, pure dopo la decisione della Corte costituzionale ha continuato a fare riferimento all'art. 189 c.p.p. quella parte della giurisprudenza, ricordata nell'ordinanza di rimessione, che riconosce valore probatorio alle videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi avvenuti in ambito domiciliare (ved. in particolare Sez. IV, 18 giugno 2003, n. 44484, Kazazi).
Sul versante opposto della giurisprudenza e della dottrina si è invece negata rilevanza probatoria alle videoregistrazioni in questione facendo riferimento alla categoria delle prove incostituzionali. Si è ricordata la sentenza della Corte costituzionale n. 34 del 1973, con la significativa enunciazione del “principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito”. Principio che la sentenza n. 81 del 1993 ha ribadito con vigore, affermando che “non possono validamente ammettersi in giudizio mezzi di prova che siano stati acquisiti attraverso attività compiute in violazione delle garanzie costituzionali poste a tutela dei fondamentali diritti dell'uomo o del cittadino”.
A conclusioni analoghe sono pervenute anche queste Sezioni unite con le sentenze 16 maggio 1996, Sala, 13 luglio 1998, Gallieri e 23 febbraio 2000, D'Amuri, le quali, secondo l'affermazione fatta nella sentenza Sala e testualmente riprodotta nella sentenza Gallieri, hanno fatto rientrare “nella categoria delle prove sanzionate dall'inutilizzabilità, non solo le “prove oggettivamente vietate”, ma le prove formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla “legge”, ed, a maggior ragione, quindi, quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione. Ipotesi quest'ultima sussumibile nella previsione dell'art. 191 c.p.p., proprio perché l'antigiuridicità di prove così formate od acquisite attiene alla lesione di diritti fondamentali, riconosciuti cioè come intangibili dalla Costituzione“.
Nella ricostruzione delle Sezioni unite quindi la categoria delle prove incostituzionali si è combinata con quella della inutilizzabilità, essendosi ritenuto, come del resto è stato prospettato anche in dottrina, che i divieti ai quali fa riferimento l'art. 191, comma 1, c.p.p siano non solo quelli stabiliti dalle norme processuali ma anche quelli rinvenibili in altri settori dell'ordinamento, e in primo luogo nella Carta costituzionale. Pure questa ricostruzione però è tutt'altro che scontata perché da altra parte della dottrina si sostiene che l'art. 191 c.p.p., nel prevedere l'inutilizzabilità delle c.d. prove vietate, presuppone l'esistenza di divieti che, attenendo ad atti del procedimento, non possono che derivare da norme processuali.
Certo è che se il sistema processuale deve avere una sua coerenza risulta difficile accettare l'idea che una violazione del domicilio che la legge processuale non prevede (e che per questa ragione risulta in contrasto con il contenuto precettivo dell'art. 14 Cost.) possa legittimare la produzione di materiale di valore probatorio e che inoltre per le riprese di comportamenti non comunicativi possano valere regole meno garantiste di quelle applicabili alle riprese di comportamenti comunicativi, regolate, come si è visto dagli artt. 266-271 del codice di rito. Per queste infatti occorrerebbe l'autorizzazione del giudice, ammessa solo per determinati reati, in presenza di condizioni particolari e con vincoli di vario genere, presidiati dalla sanzione dell'inutilizzabilità, mentre per le altre sarebbe sufficiente il provvedimento del p.m. (se non anche la sola iniziativa della polizia giudiziaria) e mancherebbero regole di garanzia assimilabili a quelle previste per le intercettazioni di comunicazioni. Con la conclusione che mentre potrebbero essere per varie ragioni colpite da inutilizzabilità le riprese di comportamenti comunicativi ben difficilmente potrebbero esserlo le altre.
7. Per giungere alla conclusione che non possono considerarsi ammissibili, come prove atipiche, le videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi effettuati in ambito domiciliare non occorre però prendere posizione sul dibattito relativo agli effetti che la violazione delle norme costituzionali di garanzia può avere sull'attività probatoria prevista dal codice di rito, né stabilire se la sanzione dell'inutilizzabilità attenga solo alla violazione dei divieti stabiliti dalla legge processuale o riguardi anche la violazione di norme costituzionali o di altri rami dell'ordinamento, e segnatamente di quello penale (come per le intrusioni nell'ambito domiciliare potrebbe prospettarsi con riferimento all'art. 615 bis c.p.). A ben vedere nel caso in esame questi aspetti controversi non vengono in questione perché la soluzione passa direttamente attraverso l'interpretazione dell'art. 189 c.p.p., che è stato richiamato per legittimare processualmente l'attività probatoria “incostituzionale” .
Si vuole dire che il tema della inutilizzabilità come sanzione processuale per la violazione di regole di rango costituzionale riguarda, in linea di principio, le prove tipiche e non quelle atipiche. Prima dell'ammissione le prove atipiche non sono prove, perciò se sorge questione sulla legittimità delle attività compiute per acquisire i materiali probatori che le sorreggono ci si deve interrogare innanzi tutto sulla loro ammissibilità, piuttosto che sulla loro utilizzabilità, e a parere di queste Sezioni unite se si fa corretta applicazione dell'art. 189 c.p.p. le videoregistrazioni acquisite in violazione dell'art. 14 Cost. devono considerarsi inammissibili .
Infatti l'art. 189 c.p.p., in coerenza con l'art. 190, comma 1, c.p.p. – che impone al giudice di escludere le prove “vietate dalla legge” – , presuppone logicamente la formazione lecita della prova e soltanto in questo caso la rende ammissibile. Il presupposto è implicito, dato che per il legislatore non poteva che essere lecita un'attività probatoria “non disciplinata dalla legge”. E' vero che con l'espressione “prova non disciplinata dalla legge” il codice si riferisce immediatamente alla mancanza di una disciplina che concerna sotto l'aspetto processuale la prova da assumere, ma è anche vero che non può considerarsi “non disciplinata dalla legge” la prova basata su un'attività che la legge vieta, come nel caso delle riprese visive di comportamenti non comunicativi avvenuti in ambito domiciliare.
Deve perciò concludersi che i risultati di tali riprese non possono essere acquisiti come prova atipica e, come logico corollario, che tale criterio di giudizio è destinato ad orientare in senso negativo le valutazioni che, come nel caso in esame, il giudice è chiamato ad esprimere in merito alla possibilità di “utilizzare” siffatto materiale probatorio nella fase procedimentale.
8. Resta da stabilire se i camerini in cui avvenivano gli incontri, i c.d. privés, possano o meno considerarsi un domicilio.
Sulla nozione di domicilio, a norma dell'art. 14 Cost. così come su quella di privata dimora, a norma dell'art. 614 c.p. (richiamato dall'art. 615 bis c.p., sulle interferenze illecite nella vita privata, e dall'art. 266, comma 2, c.p.p. sulle intercettazioni ambientali), non vi sono nella giurisprudenza e nella dottrina indicazioni univoche e si dubita pure che ci sia coincidenza tra l'ambito della garanzia costituzionale e quello della tutela penale. In linea di grande approssimazione si può dire che da parte di alcune decisioni si fa riferimento prevalentemente alla utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (come il riposo, l'alimentazione, lo studio, l'attività professionale, lo svago) di chi lo occupa e anche a una certa durata del rapporto tra il luogo e la persona, mentre da parte di altre si pone l'accento sul carattere esclusivo (lo ius excludendi alios) e sulla difesa della privacy. Si può aggiungere indicativamente che la giurisprudenza tende ad ampliare il concetto di domicilio in funzione della tutela penale degli artt. 614 e 615 bis c.p., mentre tende a circoscriverlo quando l'ambito domiciliare rappresenta un limite allo svolgimento delle indagini.
Sono significative espressione dei diversi orientamenti le decisioni contrastanti sulla possibilità di riconoscere un domicilio anche nell'abitacolo di un'autovettura (sul contrasto si veda la sentenza delle Sezioni unite, 31 ottobre 2001, Policastro, che però non gli ha potuto dare soluzione perché la relativa questione è risultata priva di rilevanza) o nella toilette di un locale pubblico.
Il contrasto giurisprudenziale relativo alla toilette di un locale pubblico è di particolare interesse perché offre spunti per la decisione del caso in esame. Secondo un primo orientamento uno dei requisiti che consentono di riconoscere a un luogo il carattere di privata dimora è costituito da una certa “stabilità” del rapporto tra il luogo e la persona che se ne serve, requisito che non è ravvisabile rispetto alla toilette di un locale pubblico. In questo senso si sono espresse Sez. VI, 10 gennaio 2003, n. 3443, Mostra, rv. 224743; Sez. VI, 10 gennaio 2003, n. 6962, Cherif Ahmed, rv. 223733 e più di recente Sez. VI, 19 novembre 2005, n. 11654, Siciliano. Nel caso oggetto di quest'ultima decisione erano state installate delle telecamere nella toilette di un centro di smistamento della corrispondenza ed erano stati ripresi alcuni dipendenti delle poste mentre aprivano delle buste, esaminavano il contenuto e talvolta se ne appropriavano. Rispetto a questa vicenda la Corte di cassazione ha affermato che “il luogo in questione, caratterizzato da una frequenza assolutamente temporanea e condizionata unicamente dalla soddisfazione di un bisogno personale, non può essere assimilato ai luoghi di privata dimora di cui all'art. 614 c.p., che presuppongono una relazione con un minimo grado di stabilità con le persone che li frequentano e un soggiorno che, per quanto breve, abbia comunque una certa durata, tale da far ritenere apprezzabile l'esplicazione di vita privata che vi si svolge”.
Ad opposte conclusioni è pervenuta invece Sez. IV, 16 marzo 2000, n. 7063, Viskovic, rv. 217688. In questa decisione la Corte ha affermato che la nozione di domicilio accolta dall'art. 14 Cost. è diversa e più ampia di quella prevista dall'art. 614 c. p., finendo per coprire “tutti i luoghi, siano o meno di dimora, in cui può aver luogo il conflitto di interessi che essa regola”. La tutela costituzionale, pertanto, si estenderebbe non solo alle private dimore e ai luoghi che, pur non costituendo dimora, consentono una sia pur “temporanea ed esclusiva disponibilità” dello spazio, ma anche “ai luoghi nei quali è temporaneamente garantita un'area di intimità e di riservatezza”. Chi si reca nel bagno di un esercizio pubblico – ha osservato la Corte – non solo non rinunzia alla propria intimità e alla propria riservatezza, ma, sia pur temporaneamente, può opporsi all'ingresso di altre persone.
Che la nozione di domicilio accolta dall'art. 14 Cost. sia più ampia di quella desumibile dall'art. 614 c.p. è opinione prospettata in dottrina ma non incontrastata; in ogni caso, quale che sia il rapporto tra le due disposizioni, il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza. Non c'è dubbio che il concetto di domicilio individui un rapporto tra la persona e un luogo, generalmente chiuso, in cui si svolge la vita privata, in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza. Ma il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente.
In altre parole la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente. Diversamente nel caso della toilette e nei casi analoghi il luogo in quanto tale non riceve alcuna tutela. Chiunque può entrare in una toilette pubblica, quando è libera, e la polizia giudiziaria ben potrebbe prenderne visione indipendentemente dall'esistenza delle condizioni processuali che legittimano attività ispettive. Perciò con ragione la giurisprudenza ha introdotto il requisito della “stabilità”, perché è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità.
Deve quindi concludersi che una toilette pubblica non può essere considerata un domicilio neppure nel tempo in cui è occupata da una persona.
Non diversa è la situazione dei camerini in cui avvenivano gli incontri all'interno del locale “Alfa”: erano ambienti in cui il cliente si appartava per pochi minuti con la ragazza, sotto il controllo vigile del personale, e nessuna tutela di carattere domiciliare poteva ricollegarsi all'uso temporaneo che ne veniva fatto.
E' vero però che una toilette pubblica o un camerino come quelli in questione se non sono un domicilio sono tuttavia un luogo che dovrebbe tutelare l'intimità e la riservatezza delle persone, e che quindi ai fini delle riprese visive non possono essere trattati come un luogo pubblico o esposto al pubblico. La caratteristica e le funzioni di questi luoghi, se da un lato, come si è detto, non giustificano un ampliamento del concetto di domicilio fino a comprenderli in esso, dall'altro non consentono che le attività che vi si svolgono possano rimanere esposte a qualunque genere di intrusioni.
9. Si ritiene generalmente che anche il diritto alla riservatezza o più in generale il diritto al rispetto della vita privata abbia un riconoscimento costituzionale nell'art. 2 Cost., al quale si aggiungono come norme più specifiche l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e l'art. 17 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Ma sul piano costituzionale il diritto alla riservatezza non gode di una tutela analoga a quella apprestata dall'art. 14 Cost. per il domicilio, ed è per questa ragione che anche in mancanza di una disciplina specifica le riprese visive che lo sacrificano devono ritenersi consentite e suscettibili di utilizzazione probatoria a norma dell'art. 189 c.p.p. In altre parole quell'applicazione dell'art. 189 c.p.p. che erroneamente una parte della giurisprudenza ha ritenuto di poter fare con riferimento a riprese visive in ambito domiciliare è invece possibile per le riprese effettuate in luoghi che pur non costituendo un domicilio vengono usati per attività che si vogliono mantenere riservate.
Sono queste, e non quelle in ambito domiciliare, le riprese che possono avvenire sulla base di un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, sia essa il pubblico ministero o il giudice; provvedimento che non può mancare perché, come è già stato affermato da questa Corte, è “necessario che la limitazione del diritto alla riservatezza venga disposta con decreto (gli artt. 244, 247 e 253 fanno infatti riferimento a un decreto) motivato dell'autorità giudiziaria” (Sez. IV, 16 marzo 2000, n. 562, Viskovic).
Alcuni autori hanno assimilato le riprese visive alle ispezioni e ai rilievi. Questi in realtà sono mezzi che si differenziano dalle riprese visive sia perché non hanno carattere continuativo, sia soprattutto perché nella disciplina processuale presuppongono un'esecuzione palese (mentre le riprese visive vengono tenute nascoste), ma l'assimilazione dà conto della ragione per cui anche le riprese visive devono essere legittimate da un provvedimento dell'autorità giudiziaria. Questo infatti rappresenta secondo la Corte costituzionale un “livello minimo di garanzie” (sentenze n. 81 del 1993 e n. 281 del 1998) e ad esso si è fatto riferimento anche per regolare, in mancanza di una specifica normativa, l'acquisizione dei tabulati contenenti i dati identificativi delle comunicazioni telefoniche (Sez. un., 23 febbraio 2000, n. 6, D'Amuri).
E' da aggiungere che nel motivare il provvedimento che dispone le riprese visive l'autorità giudiziaria non potrà fare a meno di indicare lo scopo di queste, vale a dire gli elementi probatori che attraverso l'atto intrusivo essa ritiene che possano venire utilmente acquisiti.
10. Non resta ora che fare applicazione della normativa al caso in esame.
Le riprese visive nei camerini, i c.d. privés, non erano inibite perché i camerini non costituivano un domicilio. Essi tuttavia costituivano un luogo nel quale si svolgevano attività destinate a rimanere riservate, rispetto alle quali indagini con le modalità intrusive adottate richiedevano un congruo provvedimento giustificativo. Nella specie però un provvedimento del genere manca: c'è una richiesta del p.m. al g.i.p. di “autorizzazione a disporre le operazioni di ripresa visiva all'interno del locale” “Alfa” seguita da un provvedimento del g.i.p. su un modulo a stampa nel quale si fa riferimento a una “richiesta di autorizzazione a disporre intercettazione di conversazioni tra presenti” e si “autorizza il p.m. a disporre le operazioni di intercettazione per giorni quindici e con le modalità consentite e che riterrà”.
Perciò non solo manca una motivazione sulle ragioni che avrebbero potuto giustificare una ripresa visiva ma manca anche un consapevole provvedimento autorizzativo, visto che quello emesso riguarda espressamente una intercettazione di conversazioni tra presenti.
In mancanza del provvedimento autorizzativo è da ritenere che la prova atipica, costituita dalle videoregistrazioni effettuate, si prospetti carente di un presupposto di ammissibilità e che quindi non possa essere utilmente addotta a giustificazione di una prognosi di responsabilità sorretta da gravi indizi di colpevolezza.
Di conseguenza l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Perugia per un nuovo esame relativo ai gravi indizi di colpevolezza, da compiere senza tenere conto dei risultati delle riprese visive.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte di cassazione annulla l'ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Perugia per nuovo esame.