TRIBUNALE DI VENEZIA 20 GIUGNO 2005.
Giudice Dr. Roberto Simone
Svolgimento del processo
Con l'atto di citazione in epigrafe indicato Tizio conveniva dinanzi al Tribunale di Venezia la Banca di Roma s.p.a. ed esponeva che: era titolare dal 1995 di un conto corrente aperto presso la filiale 2 di Padova dell'istituto di credito, sul quale gli era stata concessa una linea di credito per oltre Lire 3.000.000 assistita da fideiussione prestata dalla sig.ra Caia, all'epoca sua compagna; verso la fine di maggio 2000 una dipendente della ridetta filiale, tale Sempronia, comunicava per telefono al padre della sua compagna l'andamento del rapporto bancario ed il relativo saldo debitorio; in seguito la stessa dipendente dell'istituto di credito lasciava nella segreteria telefonica dei suoi genitori analoga comunicazione; siffatte indebite comunicazioni, effettuate in spregio al canone della riservatezza propria dei rapporti bancari, oltre che alle disposizioni sul trattamento dei dati personali, lo avevano esposto alla definitiva compromissione del suo rapporto con la Caia, all'epoca già in crisi proprio per le sue lamentate difficoltà finanziarie, oltre che con la sua famiglia d'origine, presso cui era stato costretto a tornare a vivere suo malgrado.
Tanto premesso, l'attore chiedeva la condanna della convenuta al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti a causa dell'illecita condotta in questione.
Si costituiva la Banca di Roma s.p.a. e resisteva alla domanda svolta. Deduceva la convenuta che nessuna illecita comunicazione era stata fatta a soggetti estranei al rapporto contrattuale, mentre debitamente dello stato del rapporto era stata notiziata la De Blasi quale persona interessata al ricevimento della notizia, incombendo sull'attore l'onere della prova dell'indebita propalazione a soggetti terzi. Contestava inoltre la convenuta l'esistenza del nesso di causa tra la riferita comunicazione e la rottura del rapporto con la Caia, tanto più che questa come garante dell'attore aveva pieno diritto ad essere informata, sì che, anche in assenza della comunicazione a terzi, comunque la donna avrebbe saputo dell'esposizione finanziaria. Sul piano del pregiudizio non patrimoniale subito dall'attore proprio il richiamo dallo stesso fatto dell'art. 2050 c.c., quindi ad un'ipotesi di responsabilità oggettiva, escludeva la stessa possibilità di accordare il chiesto risarcimento.
Radicato il contraddittorio all'esito dell'udienza di prima comparizione erano concessi i termini per il deposito di memorie ai fini di cui all'art. 180, comma 2, c.p.c. A seguito di istruttoria orale e documentale, la causa era trattenuta in decisione sulle conclusioni epigrafate all'udienza del 26.11.2004, previa concessione dei termini per il deposito degli atti ex art. 190 c.p.c.
Motivi della decisione
L'espletata istruttoria ha corroborato l'allegazione fatta dall'attore. Contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta non è punto vero che la notizia dello scoperto del Tizio fu portata a conoscenza della sola Caia quale garante (cfr. il doc. 3 del fascicolo attoreo), posto che del raggiunto sbilanciamento fu resa edotta tanto la madre di quest'ultima (cfr. quanto dichiarato dalla teste Tizia), quanto i genitori dell'attore per effetto del messaggio lasciato nella segreteria telefonica. Al riguardo nessun dubbio può sorgere dal chiaro tenore delle dichiarazioni testimoniali assunte in questa sede. La teste Tizia ha riferito di una prima telefonata fatta a nome della Banca di Roma nella quale si chiedeva della figlia, cui poi fece seguito una seconda chiamata, questa volta presa dalla teste. Nel corso di tale conversazione la teste apprese della posizione di garante della figlia circa un'esposizione del Tizio, nonché l'ammontare del debito pari ad oltre Lire 3.000.000. Circostanze, queste ultime, prima del tutto ignorate dalla Tizia. Del pari la madre dell'attore, sentita in qualità di teste, ha ricordato che all'epoca della comunicazione lasciata in segreteria telefonica segnalante l'esposizione il figlio si era ritrasferito nella sua abitazione (quella dei genitori), per aver interrotto la relazione con la Caia. La teste ha inoltre riferito che il marito a causa di una siffatta comunicazione invitò il figlio ad andare via perché non intenzionato a ricevere telefonate del tenore indicato.
Per quanto non dimostrata la relazione causale tra l'episodio della telefonata e la rottura del rapporto con la Caia, come evidenziato da quest'ultima, la quale, tuttavia, ha rimarcato di aver chiesto spiegazioni all'attore non appena appresa la notizia dalla madre, è indubitabile che la condotta oggetto di causa confligga apertamente non solo con la dovuta correttezza nell'esecuzione del rapporto contrattuale, atta ad imporre l'adozione di obblighi comportamentali, ossia di prudenza e discrezione, se non particolarmente gravosi, ma anche con la normativa sul trattamento dei dati personali all'epoca in vigore ossia con la l. 675/96 tesa a tutelare, tra gli altri, il diritto alla dignità delle persone fisiche.
Che la condotta posta in essere dalla convenuta, ossia l'avvenuta indebita propalazione a terzi estranei dell'esposizione debitoria, possa essere nell'ambito di applicazione della legge indicata lo si desume dall'ampiezza della nozione di trattamento di cui all'art. 1, comma 2, lett. b), laddove si legge “per “trattamento” (si intende), qualunque operazione o complesso di operazioni, svolti con o senza l'ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati” e da quella di dato personale, dovendosi intendere come tale (art. 1, comma 2, lett. c) “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”
L'utilizzazione dei dati personali, oltre che per scopi determinati, espliciti o legittimi, deve avvenire in base all'art. 9 in modo lecito e corretto. Si consideri che in un'ottica volta a salvaguardare non più solo il diritto alla riservatezza, ma la conservazione dei dati personali ed il potere di controllo dell'individuo su questi, l'art. 15 della legge in questione impone che il trattamento avvenga con modalità in grado di assicurare la loro custodia in modo da ridurre al minimo i rischi di accesso non autorizzato. Da ciò si desume che nel trattamento dei dati personali se è necessaria l'adozione di misure di sicurezza in grado di evitare l'accesso da parte di soggetti non autorizzati, va da sé che confligge apertamente con il canone della correttezza la divulgazione ad opera del titolare (del trattamento) a soggetti diversi dall' “interessato”, ossia del soggetto cui i dati si riferiscono.
Né è sostenibile che la condotta dell'istituto di credito per il tramite del proprio determinato impiegato possa essere scriminata in base al diritto al soddisfacimento del proprio credito, posto che già a livello normativo è stato sancito il bilanciamento dei possibili interessi contrapposti, dando risalto preminente all'esigenza di evitare l'accesso e, quindi, la divulgazione a soggetti diversi dall'interessato (al dato) in una chiave di lettura volta a salvaguardare la dignità della persona fisica. Appare di tutta evidenza che con le improvvide telefonate il Tizio abbia visto, senza che ve ne fosse alcuna utilità, messa nudo la sua situazione debitoria, con ulteriore compromissione del rapporto interpersonale con la Caia (anche se la rottura c'era già stata) e con grave pregiudizio di quello con la famiglia d'origine presso cui all'epoca alloggiava.
Sostenere, come fatto dalla convenuta, l'impossibilità di accordare il risarcimento del danno non patrimoniale in presenza di una fattispecie di responsabilità oggettiva, quale quella derivante dall'illecito trattamento dei dati personali, stante l'espresso richiamo dell'art. 2050 c.c. fatto dall'art. 18, è apertamente in contrasto con l'evoluzione dei diversi formanti sull'argomento. Si badi che la presente vicenda è esaminata tutta alla luce della legge del 1996 e successive modifiche, posto che avveratasi prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 196/2003.
È noto ai più che proprio la diretta considerazione del danno non patrimoniale quale posta risarcibile a prescindere dalla sussistenza del fatto di reato, secondo la tradizionale lettura dell'art. 2059 c.c., in alcuni interventi normativi, tra cui per l'appunto la legge sul data protection, ha portato la giurisprudenza nelle ben note sentenze del maggio 2003 ha virare verso una rilettura in chiave costituzionalmente compatibile della norma codicistica in materia di danno non patrimoniale.
In questo contesto, proprio la diretta considerazione dei valori della persona dotati di rango costituzionale ha portato il legislatore a sancire la piena risarcibilità del danno non patrimoniale indipendentemente dall'accertamento di un fatto di reato, tant'è che l'art. 29, comma 9, l. 675/96 prevede espressamente la risarcibilità di tale posta nei casi di violazione dell'art. 9, ossia di trattamento non in linea, per quanto riguarda la presente causa, con il canone della correttezza. Il sistema del danno non patrimoniale è stato poi riplasmato in toto dalle ben note sentenze 8828/2003 e 8827/2003, cui poi ha fatto seguito la sentenza 233/2003 della Corte costituzionale. In breve, dando seguito ideale alla sentenza 87/79 del Giudice delle leggi, la Cassazione ha dato piena cittadinanza a lesioni attinenti valori della persona costituzionalmente garantiti nell'ambito di una rilettura in chiave costituzionale dell'art. 2059 c.c. In questo modo, fermo il principio di tipicità dei danni non patrimoniali (secondo taluni degli interessi protetti, secondo altri, con una lettura espansiva, ma non pienamente condivisibile, delle conseguenze), si è operata, mediante un diverso ancoraggio costituzionale, una netta distinzione fra danno biologico tutelato dall'art. 32 cost., danno morale soggettivo connesso a tutte le forme di sentire interno (sofferenza e patimenti) o di lesione dell'integrità morale legati all'art. 2 cost. e danno connesso alla lesione di altri valori della persona di rango costituzionale (perdita del rapporto parentale, lesione della serenità familiare, artt. 29 e 30 cost.).
Assume l'attore di aver subito un grave danno nelle relazioni interpersonali e di essere stato posto in situazioni di forte tensione psicologica con la Caia. Per quanto, come già detto, la relazione con la Caia fosse già stata interrotta, è di tutta evidenza che la scoperta, a rottura avvenuta, dell'esistenza di un'esposizione debitoria, garantita dalla sua ex compagna, abbia quantomeno ulteriormente svalutato l'immagine dell'attore. Del pari, e la testimonianza della madre dell'attore lo ha confermato, ad essere compromesso, anche se non in modo irreversibile, fu il rapporto con il padre, tanto che quest'ultimo invitò l'attore a trovare una diversa sistemazione abitativa. Si badi che l'attore proprio per la rottura del rapporto con la Caia era tornato a casa dai genitori, sì che all'imbarazzo connesso alla richiesta ospitalità dovette aggiungersi quella dell'invito a trovarsi altra sistemazione abitativa.
Esclusa la sussistenza di qualsiasi danno patrimoniale, meramente allegato, ma non provato, dall'illecita condotta in esame è derivato un pregiudizio alla dignità della persona dell'attore con le indicate compromissioni sul piano del rapporto interpersonale e familiare, che non può che apprezzarsi in termini di rilevante consistenza. Anche se non risulta alcuna compromissione sul piano della validità psicofisica, la propalazione del dato ha compromesso, senza alcuna valida giustificazione, se non al chiaro intento di operare una forma di coazione psicologica all'adempimento magari ad opera di qualche familiare del debitore principale o (peggio ancora) della garante, in modo non trascurabile la dignità dell'attore. Libera la banca di agire per il recupero del credito, ma per nulla legittimata a lasciare sulla figura dell'attore lo stigma del debitore moroso in un contesto tutt'affatto diverso da quello degli ambienti degli affari, dove al più si può tollerare la messa al bando (sul piano dell'accesso al credito) dei debitori inadempienti. Non si comprende come possa reputarsi irrilevante la registrazione di un messaggio nella segreteria telefonica con indicazione dell'importo dovuto, non considerando che il messaggio potesse essere ascoltato da qualunque altro abitante nella casa.
In un'ottica di corretta liquidazione del danno non è possibile operare una duplicazione di poste, pervenendo a considerare separatamente il turbamento psicologico connesso all'indebita divulgazione e la violazione dell'art. 9 l. 675/96. Per contro, proprio la violazione del canone della correttezza nel trattamento dei dati personali ha dato luogo alla lesione dell'interesse non patrimoniale alla dignità della persona dell'attore, del tutto gratuitamente dipinto come cattivo pagatore.
Per tale lesione, pertanto, appare congruo liquidare in via puramente equitativa ed ai valori attuali la somma di € 20.000. Su tale importo, inoltre, saranno dovuti gli interessi al tasso di legge dalla presente sentenza al saldo.
La convenuta in accoglimento della domanda proposta deve essere condannata al pagamento in favore dell'attore, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma di € 20.000, oltre gli interessi dalla presente sentenza al saldo.
Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Sentenza provvisoriamente esecutiva per legge.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe riportata, respinta ogni altra domanda o eccezione, così provvede:
1) in accoglimento della domanda proposta ed accertata la responsabilità della convenuta in relazione ai fatti oggetto di causa, condanna la Banca di Roma s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., al pagamento in favore di Tizio, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma di € 20.000, oltre gli interessi dalla presente sentenza al saldo;
2) condanna la convenuta alla rifusione in favore dell'attore delle spese di lite, liquidate in complessivi € 7.244,69, di cui € 348,69 per spese, € 2.271,00 per diritti ed € 4.625,00 per onorari, oltre IVA e CPA se dovuti
per legge;
3) sentenza provvisoriamente esecutiva per legge.
Venezia, li 2 aprile 2005
Il Giudice Unico
Il Collaboratore di Cancelleria
Pubblicata il 20 giugno 2005